La ricerca di un principio: dalle origini alla scuola di Mileto
L'inizio della storia della filosofia.
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Libro: | La ricerca di un principio: dalle origini alla scuola di Mileto |
Stampato da: | Utente ospite |
Data: | venerdì, 22 novembre 2024, 01:25 |
1. La ricerca di un principio
Il termine filosofia è stato coniato probabilmente da Pitagora ed il senso che egli dette a questo termine lo vedremo più avanti. Qui analizziamo la sua origine etimologica perché in essa si nasconde tutto il significato della sua ricerca.
Il termine è composto da due parole: philos e sophia.
Il primo indica “amare”, “aver cura”, “tendere a”.
Il secondo alla lettera significa “sapienza”. Il termine sophia deriva a sua volta da phaos, “luce” che in indoeuropeo si dice bhu o bha, con il doppio significato di “essere” e “luce” (che è come dire che esiste tutto ciò che può essere illuminato e che in virtù del suo essere alla luce non può essere messo in discussione).
Rileggendo il termina da capo possiamo definirlo: “aver cura di tutto ciò che essendo alla luce non può essere messo in dubbio nella sua esistenza”. Tradotto: di cui non si può dire niente di falso o la cui verità non può essere negata.
Questo cerca la filosofia: una verità indubitabile.
2. L'ordine
Seguendo la Teogonia di Esiodo, in principio era il Caos, lo spazio aperto, l’abisso, il Tutto non definibile e di cui, di conseguenza, non si può parlare. Ma se il Caos è già il Tutto (che quindi non esclude niente), nel Caos si trova già tutta la realtà (che se ne parli o meno). Quella che manca, e di cui la Filosofia pone come suo obiettivo e oggetto di ricerca, è la Verità, cioè poter affermare qualcosa di quel Tutto per quello che è. Si rende necessario dunque un ordine, un principio che permetta del Caos di identificare qualcosa di predicabile, che il soggetto è in grado di riconoscere (perché il Caos, per definizione, è ingiudicabile).
Nella cosiddetta terza generazione degli Dei, da Chronos (il Tempo), perché ci vuole il “tempo” per mettere “ordine” al Caos, nasce Zeus. Zeus a seguito della lotta con il padre (che metaforicamente potremmo leggere come “lotta contro il tempo”) diviene padre dei dèi. Gli dèi si vedono attribuiti ognuno un proprio ruolo nella legiferazione della natura. Quella natura che è per sua definizione il regno delle cose che cambiano (che nascono, da cui l’origine della stessa parola “natura”, e quindi muoiono, sempre nel “tempo”), ma di ciò che cambia, se non se ne conoscono le cause, non è possibile esprimere alcunché di vero. Da qui il bisogno di un principio (Zeus) che dia ordine tramite leggi (gli dèi) e queste non devono essere nel tempo, ma nell’eterno, perché, appunto, non siano soggette al cambiamento.
Ma è possibile comprendere queste leggi? Se viviamo nel tempo come possiamo conoscere leggi che sono eterne?
Seguendo un altro mito il problema si era già posto nella teogonia greca: è necessario possedere quel qualcosa del Tutto che permetta non solo di farne parte ma di comprenderlo come il tutto stesso, occorreva qualcosa di eterno anche nell’uomo che pretende di vivere sia nel tempo che nell’eterno. Il mito in questione è quello di Dioniso.
Secondo una versione di questo mito, Dioniso, figlio di Zeus (uno dei tanti), fu divorato dai Titani (smembrato, bollito, arrostito e mangiato). Zeus, per punizione, folgorò e incenerì i Titani, e, dal resto delle loro ceneri, nacque il genere umano. Gli uomini sono dunque fatti di cenere (nascono e muoiono, ovvero si aggregano e decompongono nel tempo) ma hanno anche una sorta di natura divina perché i Titani, prima di essere inceneriti, hanno divorato Dioniso, e quindi qualcosa di divino si trova nei loro resti. Dal mito di Dioniso, l’orfismo (e non a caso una buona parte dei filosofi delle origini sono orfici) trae una serie di riflessioni sulla natura umana: nell’uomo, derivato dal “vapore” dei Titani, è presente una componente dionisiaca, che ne attesta l’appartenenza agli dèi. Detto in altro modo, l’orfismo presenta una visione dell’uomo caratterizzata da due componenti: il corpo titanico e corruttibile e l’anima dionisiaca immortale. Nel corpo alberga, infatti, una sorta di “scintilla divina”, un’anima immortale e destinata a tornare agli dèi, che vive la vita nel corpo in modo innaturale, doloroso, lacerante. Al di là degli scopi dei riti purificatori praticati dagli orfici (liberare l’anima immortale dalla sua prigione, il corpo mortale, riti che in Pitagora e Platone diventeranno episteme), che non trattiamo adesso, è importante ricordare questa peculiarità insita nell’uomo di comprendere l’ordine dell’universo e che per comprenderlo deve comprendere (anzi, partecipare) la propria natura divina e immortale.
Tradotto in termini ancora più semplici: in una natura dove tutto scorre e tutto cambia, esprimere verità significa conoscere l’ordine che non cambia e per far questo significa conoscere come le cose sono non nel tempo ma nell’eterno.
3. La scuola Ionica
La scuola di Mileto è una scuola filosofica presocratica attiva nel VI secolo a.C., a Mileto, colonia greca nel territorio ionico, corrispondente all'odierna costa mediterranea della Turchia. In particolare, in quel periodo la città di Mileto rivestiva una grande importanza, soprattutto sul punto di vista economico e commerciale; fu proprio in questo momento particolarmente fiorente per la sua economia, che essa, per così dire, diede i natali al pensiero filosofico occidentale. Dobbiamo tuttavia precisare che le notizie storiche sulla scuola di Mileto sono in realtà pochissime e confuse; molto probabilmente non si trattò di una vera e propria scuola, anche se alcuni tratti di pensiero comuni possono in ogni caso essere identificati, fra i suoi esponenti. (Da wikipedia)
3.1. Talete
Chi per primo indaga la natura (physys) con l’intento di dirne ciò che è necessario (ananke), ovvero verità (aletheia: verità non-nascosta) è, secondo la tradizione, Talete. Contemplare la physys, con Talete, poiché essa è il tutto, significa non guardarla dall’esterno ma penetrare dentro se stessi per cogliere i principi dell’universo. Da qui la massima a lui spesso attribuita (ma a volte attribuita a Socrate) del “conosci te stesso”. Le verità che valgono per la natura, infatti, valgono anche per il soggetto che la osserva.
Tradizionalmente affermiamo che il principio ultimo (arché) su cui si fonda la realtà è l’acqua. Deduciamo questo da alcuni frammenti come questo:
Talete, iniziatore di questo tipo di filosofia, dice che quel principio è l’acqua (per questo afferma anche che la Terra galleggia sull’acqua), desumendo indubbiamente questa sua convinzione dalla constatazione che il nutrimento di tutte le cose è umido, e che perfino il caldo si genera dall’umido e vive nell’umido. (Aristotele, Metafisica, 983b).Oggi si tende a pensare che questa idea del principio identificato con l’acqua, in Talete, sia stata una forzatura dello stesso Aristotele, ma ciò non toglie che Talete è stato il primo che si è posto la questione metafisica del principio di tutte le cose.
3.2. Anassimandro
Anche Anassimandro è di Mileto (probabilmente allievo di Talete) e anche lui si è dedicato alla ricerca di questo principio originario. Il suo ragionamento è molto semplice ma dalle conseguenze importanti: se l’archè è origine di ogni cosa, allora non può essere una determinazione particolare del tutto perché non potrebbe essere causa di qualsiasi cosa diversa da essa.
Spieghiamo questo con un esempio. Affermiamo: “In questa stanza ci sono 20 persone” ma basta chiedere ad una persona presente nella stanza di uscire e il giudizio non sarà più vero. Per essere certi che un giudizio sia innegabile è necessario che dell’oggetto di cui si parli non sia modificabile e che il giudizio che si affermi non possa quindi essere contraddetto, ma c’è un unico oggetto di cui questo sia possibile: il Tutto, perché il Tutto, per definizione, non lascia fuori niente. Come possiamo dire qualcosa del Tutto? Disegniamo il Tutto come un ovale e dividiamolo a metà, quindi indichiamo una delle due parti con un predicato qualsiasi (ad esempio “essere giallo”): questa metà indica l’insieme degli enti di cui si possa predicare la proprietà “essere giallo”. L’altra metà, di conseguenza, sarà predicata dalla proprietà “essere NON giallo”:
Si mostra che la totalità degli enti G e degli enti ¬G rappresentano la totalità di tutti gli enti, e quindi se riesco ad esprimere un giudizio su un ente che comprenda sia la proprietà G che ¬G questo ente sarà proprio il Tutto che sto cercando.
Cosa hanno in comune G e ¬G?
L’idea per una risposta “logica” la fornisce Anassimando: l’unica proprietà che hanno in comune un predicato e il suo opposto è la “linea di demarcazione che li separa”, detto in termini meno “grafici” che sono entrambi determinazioni del Tutto, quindi la “determinazione” è la proprietà comune. Ogni determinazione infatti origina non solo se stessa ma anche il suo opposto. Ma cosa può essere causa di qualsiasi determinazione se non l’indeterminato? E proprio l’indeterminato sarà dunque la causa di ogni ente e quindi il suo ordine, la sua legge, che Anassimando esprime così:
«Principio degli esseri è l'infinito (ápeiron)... da dove infatti gli esseri hanno origine, lì hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l'uno all'altro la pena e l'espiazione dell'ingiustizia secondo l'ordine del tempo » (Anassimandro, in Simplicio, De physica, 24, 13)Questa è la traduzione classica che si trova in tutti i libri di testo, ma poiché il principio (Archè) di Anassimandro è definito Ápeiron (senza limiti, confini) invece che infinito preferiamo tradurlo indeterminato. Perché indeterminato è coerente a quanto detto prima sulla distinzione tra Realtà e Verità: l’ápeiron di Anassimando è definito in modo negativo (a- privativa) proprio perché di esso non si può esprimere positivamente alcunché, giacché se si potesse esprimere sarebbe determinato (ogni predicato “divide” con il linguaggio il mondo in opposti determinati).
Il frammento però di esso aggiunge anche la sua legge (ciò che si realizza, nel cambiamento, per necessità) che il tutto ordina: l’indeterminato è origine e fine degli esseri (o enti) e che questo, che avviene secondo l’ordine del tempo, è necessario (e quindi eterno).