Il dopoguerra italiano e l'ascesa del Fascismo
1. La crisi del dopoguerra
Per l’Italia il dopoguerra fu caratterizzato da un diffuso senso di delusione per gli esiti del conflitto. Pur rientrando tra le nazioni vincitrici, l’Italia non vide mantenute tutte le promesse, in termini di annessioni territoriali, del Patto di Londra e in particolare non ottenne Fiume, la Dalmazia e i territori del Dodecanneso, rivendicati dai nazionalisti e dagli interventisti.
Si diffuse pertanto quel sentimento della vittoria mutilata che accese gli animi e divise gli italiani tra dannunziani e caporettisti, i primi accesi patrioti, i secondi scialbi rinunciatari.
Il poeta D'Annunzio tentò con una spedizione di occupare Fiume nel settembre del 1919 ma questa occupazione si esaurì alla fine del 1920 con l’abbandono a seguito del Trattato di Rapallo, che affidava la città istriana al controllo internazionale fino al 1924, anno in cui sarebbe passata sotto il governo italiano.
Ma oltre alla questione nazionale, nell’immediato dopoguerra tornò a divampare la questione sociale, poiché le conseguenze negative del conflitto ricaddero in prevalenza sui ceti proletari e piccolo borghesi. In particolare vi fu il problema del reinserimento dei combattenti, reso difficile dall’esigenza di riconvertire l’industria alla produzione civile, quello delle terre incolte e della promessa non mantenuta di una riforma agraria che finalmente distribuisse la terra ai contadini.
La piccola borghesia risentì maggiormente dell’inflazione e della crisi di bilancio dello stato, mentre la grande borghesia si avvantaggiò grazie alle commesse statali che durante la guerra avevano drenato ingenti risorse finanziarie a favore delle grandi industrie.