Quanto è difficile essere felici
Quanto è difficile essere felici
Ci sono due modi per parlare della felicità: chiedersi se esista un modo per farlo o non chiederselo affatto.
Nel primo caso si persegue quell'atteggiamento noto come “intellettualismo etico”, un atteggiamento cioè che prevede la possibilità di definire la felicità, renderne quindi le condizioni conoscibili all'intelletto e poterle quindi, volendo (ma si può non volerlo?) esercitare. Generalmente, almeno da filosofi che tanto contributo hanno dato sull'argomento (da Socrate agli Ellenisti) sono state poste almeno due condizioni da soddisfare per essere felici:
1) Conoscere la propria natura
2) Realizzarla
Ma se conoscere la propria natura può sembrare cosa banale (come si può non conoscere se stessi?) bisogna raccontarlo a Freud che ci ha spiegato come l'io, le nostre pulsioni, i nostri desideri sono tutt'altro che evidenti ma spesso nascosti a noi stessi dal nostro inconscio e dalla nostra educazione.
Possiamo comunque ovviare al problema dell'inconscio affrontando il problema in negativo: se non è possibile conoscersi per quello che siamo e per quello che vogliamo, ci conosciamo dunque per persone che non sono in grado di determinare una volta per tutte lo stato dei nostri desideri e che quindi è impossibile raggiungere la felicità limitandosi a soddisfare desideri, perché ci sfuggono e soprattutto cambiano e si rinnovano continuamente.
Se sappiamo questo non ci resta che reagire determinando la nostra volontà con questa nuova consapevolezza: vivere accettando di soddisfare i desideri possibili senza la presunzione che quelli siano necessari e definitivi e senza dunque l'affanno di pensare di poter raggiungere una volta soddisfati un qualsivoglia equilibrio.
Insegnavano i saggi stoici, che di queste cose se ne intendevano: tutto quello che mi capita nella vita spesso non dipende da me, non so come mi arrivi, ma accetto di buon grado tutto come se lo avessi voluto vedendo in esso qualcosa che possa soddisfare un qualsiasi mio desiderio. Non farlo (cioè non accettando quello che ci succede) non farà in modo che non sia successo.
Il perché state leggendo questo articolo non potete saperlo, ma già che lo state facendo cercate di trovare in esso qualche cosa di utile, magari per farvi domande su bisogni che forse prima non potevare soddisfare o che forse non sapevate nemmeno di avere.
Tra gli autori che amo citare su questo argomento è il cinico Antistene. La sua ricetta è semplice quanto terribile: la felicità sta nella realizzazione della propria natura la quale però è tutt'altro che semplice da realizzare perché, come se la felicità fosse da evitare, la nascondiamo sotto convenzioni, stereotipi, modelli (le tanto vituperate Idee platoniche che Antistene odiava) che ci mostrano come crediamo o vorremmo essere e non quelli che siamo. Cercare di essere diversi da quello che siamo: ecco come essere infelici. Realizzare se stessi: toglierci di dosso tutte le nostre convenzioni, ecco come rendere la felicità una fatica troppo grande e quindi renderla di fatto impossibile.
Il secondo approccio è quello di non chiedersi se esista un metodo per essere felici, e questo è da molti considerato l'unico metodo per esserlo. Ma in effetti già il fatto che ce lo stiamo chiedendo in questa sede rende questo un metodo e fa sì che ci stiamo già contraddicendo. L'unico consiglio possibile, in questo caso, non ci resta che dire è: nessun consiglio.
Nietzsche si raccomandava di lasciar perdere le favole dell'educazione e della morale imposta dalla società, ma di trovare in noi stessi la nostra volontà, l'unica che possa dare un senso ad una vita che, da sola, ovviamente, un senso non ce l'ha.
Quanto è facile essere felici
Alla fine possiamo permetterci di banalizzare entrambi gli approcci con una raccomandazione che è quasi una tautologia: fate quello che siete!
Si può essere diversi da quello che si è?
E poiché non si può, non si può non seguire la propria natura e dunque quella che viviamo ogni momento è la migliore felicità possibile, anche quella che, successivamente, ci farà tanto, inutilmente, rimpiangere di averla vissuta.
IL PADRONE: Non è di quella donna che stai per innamorarti?
JACQUES: E anche se mi fossi innamorato di lei, che ci sarebbe da ridire? Non si è forse padroni di innamorarsi o no? E quando si è innamorati, si è forse padroni di agire come se non lo si fosse? Se fosse stato scritto lassù, tutto quello che state per dirmi me lo sarei detto io stesso; mi sarei schiaffeggiato, avrei sbattuto la testa contro il muro, mi sarei strappato i capelli, ma non sarebbe cambiato niente, e il mio benefattore sarebbe rimasto cornuto lo stesso.
(D. Diderot, Jacques le Fataliste et son Maître, Traduzione di Lanfranco Binni)